Marianna Rossetti: «La diagnosi precoce del cancro al seno un giorno si farà pungendosi un dito»
Marianna Rossetti sta lavorando a una specie di glucometro: un apparecchio con dei sensori capaci di individuare nel sangue gli autoanticorpi prodotti dal sistema immunitario contro le cellule cancerose. Come si fa col diabete. E ci dice: «La diagnosi precoce del tumore deve essere economica e accessibile a tutti».
Il mondo della ricerca visto da fuori, dai pazienti, da chi va negli ospedali per curarsi, è una specie di nebulosa. Si sa che la ricerca esiste, ma dove si faccia, chi siano i ricercatori, come funzioni il loro lavoro, appartiene a un’idea confusa. E soprattutto, appannaggio di altri. Come se a noi che ci curiamo non riguardasse. Come se il lavoro dei ricercatori fosse fine a se stesso. D’altra parte, un ricercatore, una ricercatrice nella mentalità comune resta un eterno giovane. Un giovane uomo, una giovane donna di 40 anni in camice bianco che immaginiamo sempre intenti a studiare, avulso dal mondo. In realtà il loro studio è il loro lavoro, e questo vale soprattutto all’estero, dove i ricercatori vengono pagati bene.
«In Italia, aver conseguito il dottorato spesso può diventare un fattore limitante nel mondo del lavoro al di fuori dell’ambito accademico, in quanto per un’azienda, un candidato con un dottorato di ricerca può risultare “troppo qualificato” e soprattutto “meno giovane” rispetto a un neolaureato. I sacrifici compiuti durante i tre anni di dottorato, con una retribuzione più che misera (circa 1100 euro), non sono dunque in molti casi ricompensati. Anche in accademia, purtroppo, le cose non vanno molto meglio, con tagli continui dei finanziamenti alla ricerca. Fortunatamente, molti ricercatori possono contare sul supporto dei privati e delle Fondazioni che sostengono la ricerca». Marianna Rossetti è molto chiara e concreta, come la laurea che si è presa: è laureata infatti in Chimica analitica e Metodologie applicate all’Università La Sapienza di Roma, in seguito ha conseguito un dottorato in Chimica presso l’Università di Roma Tor Vergata di Roma, dove sta lavorando a un progetto di ricerca sul tumore al seno grazie al finanziamento di Fondazione Umberto Veronesi.
«Ciò che va capito è che noi non studiamo per il semplice piacere di studiare e pubblicare i nostri studi, ma per produrre dei risultati che, come le tessere di un mosaico, spianano la strada ad altre ricerche, altri studi e altri lavori che poi si concludono con la produzione di un farmaco, o magari di un dispositivo medico. Non vogliamo salvare il mondo, non siamo eroi ma lavoriamo per trovare delle soluzioni». Gran parte del lavoro dei ricercatori, però, non si svolge in laboratorio, ma consiste nello scrivere progetti per trovare dei finanziamenti. «Dedichiamo molto tempo a fare esperimenti per dimostrare la “bontà” del nostro progetto e convincere così i finanziatori a sostenerlo. Anche le pubblicazioni servono a questo, ma occorrono energie e dedizione perché la procedura è lunga, fitta di passaggi: cerchiamo la rivista giusta, prepariamo l’articolo in base a quei criteri specifici, poi gli editor decidono se il lavoro è accettabile, quindi lo inviano a docenti che non conosciamo, che lo valutano e inviano le varie osservazioni. Rispondere a queste osservazioni il più delle volte non vuol dire limitarsi a cambiare una parola. Per noi può significare fare nuovi esperimenti che rafforzino la qualità del nostro lavoro per convincere di nuovo chi ci legge».
Insomma, lo studio è solo un aspetto del loro lavoro, dedicato in larga parte alla ricerca degli sponsor. E poi non si tratta di uno studio astratto, anzi. Il progetto di Marianna, per esempio, è molto pratico: l’obiettivo è la diagnosi precoce del cancro al seno grazie a un dispositivo di poco costo e accessibile a tutti, simile al glucometro, l’apparecchio per misurare la glicemia pungendosi il dito. «Il mio campo è applicativo. A me piace tradurre nella pratica ciò che realizzo attraverso gli esperimenti. Per quattro anni ho lavorato in uno studio di ingegneria ambientale, dove ho messo a punto dei sensori che sono stati inseriti nella tecnologia di un apparecchio posto sulle boe in mare aperto, per monitorare le tossine nelle alghe in modo da rilevare il rischio tossicità per le specie acquatiche e per l’uomo. Il desiderio di tornare al bancone del laboratorio, però, mi ha portata nel 2014 a rientrare nel mondo universitario, da cui ero uscita nel 2009». Dopo aver acquisito il titolo di dottore di ricerca, cercando dei finanziamenti trova e vince una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi. «Sto cercando di applicare i miei studi sui sensori in campo clinico, per svilupparne di specifici per i marker tumorali, da inserire in un apparecchio semplice e accessibile a tutti. Il trattamento del tumore al seno ha ottenuto grossi progressi, ma la diagnosi precoce resta cruciale».
Il suo progetto punta a produrre dei sensori capaci di riconoscere gli autoanticorpi circolanti nel sangue, cioè anticorpi che il sistema immunitario produce contro le cellule cancerose perché riconosciute come estranee. «Questi anticorpi spesso non bastano per fermare il tumore, ma la loro determinazione nel sangue può aiutare a monitorare lo stadio della malattia e il rischio di metastasi. Oggi trovare questi marcatori richiede tempi lunghi di analisi, personale specializzato e strumenti costosi. Con un dispositivo del genere, invece, si potrebbero riconoscere le prime avvisaglie del tumore a casa, da soli. Poi naturalmente scatterebbero gli esami di approfondimento, ma sarebbe già un primo passo importante per la prevenzione».
I sensori a cui sta lavorando Marianna in questo caso sono specifici per il tumore al seno, ma possono poi essere utilizzati anche per altri tipi di cancro. Lei però è voluta partire dal tumore più importante delle donne, il big killer. «Ci tengo molto a poter dare il mio contributo alla salute delle donne perché mi rendo conto ogni giorno sempre più di quanto il nostro ruolo sia cruciale a tutti i livelli, e quanto invece veniamo ancora discriminate. Il mondo della ricerca per esempio sta cambiando, le ricercatrici stanno superando in quantità i colleghi maschi, molte università europee addirittura assumono ricercatori con il requisito base di essere donna per bilanciare il numero di uomini in accademia, ma ciò che deve cambiare è la mentalità. E purtroppo ancora oggi, infatti, i posti che contano nelle università sono occupati dagli uomini».
Barbara Rachetti, giornalista di Donna Moderna e Disability Manager