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Arianna Bertossi: «Il tumore è intelligente: inibisce le nostre difese. La sfida del futuro risvegliarle»

Arianna Bertossi studia il tumore al seno metastatico, ancora senza cure definitive. Vuole scoprire gli stress a cui sono sottoposte le cellule metastatiche, per colpirle nei loro punti deboli, sfruttando le difese del nostro sistema immunitario

Qual è il senso vero, ultimo, della ricerca scientifica sui tumori? Siamo abituati a pensare al ricercatore come a una specie di back up del medico, che lavora a un livello diverso, tra microscopi e vetrini ma, in qualche modo, interagisce con lui. Forse ci piace pensarlo così perché risponde a un’idea romantica, suggestiva che ci rende difficile accettare l’idea di un lavoro in laboratorio, senza contatto col paziente. Ma, se ci pensiamo bene, nessuna terapia, nessun piano di cura, nessun conforto, rassicurazione, autorevolezza di un medico può prescindere da tutto ciò che sta a monte. Da chi, cioè, spende i suoi anni migliori, i suoi studi, il suo impegno nel ricercare verità per noi microscopiche, nascoste dentro a meccanismi infinitesimali e sconosciuti, che si riveleranno invece, un giorno, risolutori. O magari no.

«La cosa più difficile del nostro lavoro è che raramente ne vedi il risvolto pratico. Fai ricerca per anni su un progetto ma non è detto che tu sappia come si svilupperà domani, a cosa porterà altri che, dopo di te, sfrutteranno quello che hai scoperto. Non tutte le ricerche trovano un’applicazione, ma non per questo non servono. Questo è il grande valore della ricerca scientifica: fare ipotesi e cercare di dimostrarle, per aumentare la conoscenza e spianare la strada magari ad altri dopo di te».

Arianna Bertossi è una di questi ricercatori. Non è la giovane dottoressa appena laureata e neo specializzata, che risponde insomma al cliché del ricercatore. È una donna di 38 anni, due bambini e un marito, che ha alle spalle già una lunga carriera: un dottorato e un post-dottorato a Monaco di Baviera in immunologia (lei è di Udine) dov’è nata Emma, poi diversi anni di lavoro a Trento dove è nato Filippo e dove, grazie alla borsa Marie Sklodowska Curie del programma Horizon 2020 della Commissione europea, ha potuto riprendere subito a lavorare. E poi il progetto finanziato da Fondazione Umberto Veronesi, che le ha permesso di poter tornare nella sua regione. Ora lavora all’Università degli Studi di Trieste a una ricerca mirata sulle metastasi del tumore al seno, un tipo di tumore per cui non esistono ancora terapie davvero efficaci.

Lo scopo del suo studio è scoprire nuove vulnerabilità delle cellule tumorali quando si spostano e formano metastasi in altri organi e capire se ci sia un legame tra gli stimoli meccanici a cui sono sottoposte durante questi processi e la formazione delle metastasi. Il suo studio nasce da un’evidenza clinica nota da tempo e che è alla base di una delle forme di prevenzione del tumore al seno più importanti, l’autopalpazione. «Da tempo si sa che i tumori al seno formano noduli di consistenza maggiore rispetto al tessuto circostante, ma non si è ancora capito come la rigidità del tessuto influenzi la crescita delle cellule tumorali e la formazione delle metastasi. L’autopalpazione quindi è un ottimo strumento di prevenzione, che tutte noi donne, anche se ancora giovani, dovremmo imparare a seguire. Il tumore al seno infatti forma una massa compatta, che si percepisce bene al tatto. Questo irrigidimento è anche alla base della formazione delle metastasi, rappresenta cioè un ambiente, creato dal tessuto tumorale stesso, che lo supporta nella crescita e poi ne facilita lo spostamento».

Cosa avviene durante la migrazione delle cellule e durante il loro insediamento nel sito metastatico? «Sono sottoposte a svariati stimoli: le cellule cioè devono infiltrarsi nei vasi sanguigni, insinuarsi negli altri organi, schiacciarsi, comprimersi. Tutto ciò potrebbe rappresentare uno stress meccanico e causare alterazioni di strutture e organelli presenti all’interno delle cellule tumorali stesse. L’integrità di questi elementi quindi è importante perché il tumore cresca e il mantenimento di questa integrità potrebbe rappresentare per noi un fattore di vulnerabilità. Se cioè riusciremo a capire le componenti cellulari che aiutano le cellule metastastiche a sopportare l’aumentato stress meccanico, queste strutture e molecole potrebbero diventare potenziali bersagli terapeutici».

Arianna si sta dedicando a questo studio ma nasce come immunologa. È laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche perché il suo primo amore è studiare la chimica delle molecole. «Poi mi sono resa conto che la parte che mi piaceva di più era scoprire il funzionamento del corpo umano e come i farmaci interagiscono col corpo, quindi mi sono appassionata più alla parte biologica che chimica degli studi». Il dottorato a Monaco l’ha indotta a specializzarsi in immunologia, nello studio cioè delle risposte attivate dal corpo in presenza di certe infezioni o infiammazioni. Questo l’ha aiutata a entrare a contatto con l’oncologia e il filone dell’immunoterapia. «Il nesso tra immunologia e oncologia oggi è attualissimo. Cerchiamo cioè di stimolare il sistema immunitario a combattere il tumore liberando il corpo dai freni che la malattia stessa mette in atto. Perché il tumore è intelligente: inibisce il sistema immunitario, cioè le nostre difese. La sfida è proprio capire come, per risvegliarlo».

Barbara Rachetti, giornalista di Donna Moderna e Disability Manager