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Insieme si può

Insieme per correre, insieme per donare, insieme per curare: un mese di run, raccolta fondi e divulgazione in partnership con Donna Moderna.

#laricercaècura

Irene Zantedeschi: «Io sono Irene, non la mia malattia. E con le Pink Ambassador non parliamo mai del tumore, ma di noi stesse»

Irene ha scoperto il tumore a 50 anni e per lei la sfida più difficile è stata la menopausa indotta: il suo corpo che si ribella, tutto che deve ricominciare, gli equilibri da ricostruire. Poi a poco a poco la vita si ricompone: diventa una Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi e dedica il suo tempo libero alle altre donne e a raccogliere fondi a sostegno della ricerca scientifica contro i tumori femminili

I 50 anni sono quell’età in cui una donna già assapora il gusto del “dopo”: i figli grandi, più tempo per concentrarsi sul lavoro, sulla coppia, su se stessa. Quegli anni lì hanno il gusto della dolcezza, dei frutti maturi da raccogliere, dopo tanta fatica. Sono anni morbidi, in cui gli spigoli cominciano a smussarsi, le tensioni a cedere e prende forma un’altra prospettiva di vita. Anche per Irene era così. Si affacciava verso i suoi 50 anni con la concretezza della sua terra, il Veneto: tanto lavoro, tanto impegno, sangue e cuore seminati nel suo vivaio, l’azienda di una vita che gestiva a 360 gradi. E poi sua figlia Silvia che si stava laureando in veterinaria, suo marito Giuseppe sempre accanto a lei, a casa e nell’attività. Intorno, una famiglia numerosa di sei tra fratelli e sorelle, con almeno 3, 4 figli a testa. Una tribù di allegria e gioia, operosa e solidale, con la mamma ancora viva che accoglie tutti nella sua casa enorme.

Insomma, Irene di cose a cui pensare ne aveva tante, quando scoprì il tumore al seno. «Ho troppo da fare, non posso morire adesso!» si disse. «Quando scoprii che quel nocciolino sul seno, comparso 10 giorni prima del mio controllo annuale, era un tumore maligno, dissi all’oncologa che non era quello il momento per andarmene e che volevo essere tra le tante donne che ce la fanno. Volevo rientrare anch’io in quel 90 per cento e oltre di successi della ricerca e delle cure. Non avevo tempo, insomma, per piangere e lamentarmi: la vita è adesso, oggi, non ieri e bisognava tirarsi su le maniche. La dottoressa sbarrò i suoi occhioni e da lì iniziò tutto: la radioterapia, con la sofferenza della pelle del seno, così delicata e sottile. Le bruciature, le ferite, le pomate. E poi la menopausa indotta, quel percorso così scontato sulla carta che quasi tutte le donne sono costrette a seguire, ma che a volte così scontato non è».

È proprio quello per lei il crocevia più sofferto. Così attiva e instancabile, si sentiva - ed era - ancora giovane e piena di energie femminili per la menopausa. Il suo fisico non era pronto e infatti continua la sua vita ormonale a dispetto delle cure. Imperturbabile, torna il ciclo con tutte le sue ricadute, a ricordarle il suo appuntamento con il “prima”, tutto ciò che c’era stato nella sua vita di donna ancora attiva e vitale. E così Irene conosce i fibromi e l’endometriosi e deve sottoporsi a un secondo intervento, con l’asportazione di ovaio, utero e tube. «A quel punto capii davvero che dovevo fermarmi con la mia vita di prima, che si apriva per me un nuovo capitolo, se avessi avuto la fortuna di scriverlo. Decisi di cedere l’attività, per la quale già da anni stavamo faticando. Quel grumo di pensieri e ansie fiscali che spesso non mi faceva dormire, se ne andò velocemente e scoprii il part time e il lavoro da dipendente».

Irene comincia a cambiare ritmo e ingranare la quarta. Le terapie che segue e i controlli regolari la stancano e la impegnano. «Quella battuta d’arresto che non mi aveva dato il primo intervento, me lo diede il secondo. Capii che se volevo vivere ancora, dovevo cercare di farlo al meglio, dedicando più tempo a me, alle persone a cui voglio bene ma anche agli altri». Comincia a seguire una psicoterapia di sostegno a cui la invitano i medici dell’ospedale di Negrar, il suo punto di riferimento dall’inizio della malattia. E così pian piano rallenta e inizia a far pace con se stessa, a sentirsi meno presa dalla ruota del dovere e del “fare”. «Ho iniziato a camminare e a fare esercizi per aiutare le articolazioni nel risveglio del mattino. E poi è arrivata la corsa».

Irene scopre le Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi in tivu e resta folgorata. Scrive subito, si mette all’opera anche in questo, nello stile che più le appartiene. E nonostante lo scetticismo di chi non aveva mai fatto neanche dieci passi di corsa, viene scelta e diventa anche lei un’ambassador. «Sono stata selezionata, io che ero in sovrappeso, sedentaria e avevo già più di 50 anni». Ma questo non conta: le Pink sono donne con la D maiuscola, con tutte le loro cicatrici e un bagaglio anche più pesante del suo. Irene si unisce al folto gruppo di Verona, 12 donne (tra cui due di Brescia) con la maglia rosa di Fondazione Veronesi. «Ho conosciuto donne con storie più difficili della mia, anche più giovani, con un futuro più incerto davanti, dove fare progetti può diventare un azzardo con la vita. Io, in fondo, quando scoprii il tumore, tante cose le avevo portate a termine».

Incontrare le altre runners diventa un modo per ridimensionare e ridimensionarsi. A un certo punto succede che l’enormità della malattia rimpicciolisce, diventa lontana come il dettaglio di una fotografia un po’ sgranata, e si amplia invece lo sguardo su se stesse. «Più mi immergevo negli allenamenti, e più capivo quanto era bello occuparmi di me, migliorare, crescere in una nuova sfida, dopo quella importante che avevo dovuto vivere. E che stavamo vivendo tutte insieme, accomunate prima dalla sorte, e ora dalla forza del gruppo e del coach: un’onda positiva di cui ho scoperto la dolcezza e la potenza. Le risate, la voglia di farcela, di tagliare un altro traguardo sono diventati uno dei tanti motivi per continuare a vivere. E questo va testimoniato, va raccontato, perché se noi siamo qui lo dobbiamo alla nostra tenuta mentale, certo, ma soprattutto ai medici e ai ricercatori». Così Irene i suoi 50 anni e oltre li mette in stand by, inizia a seguire i consigli del coach, dimagrisce, si mette il tutore per il ginocchio sofferente pur di correre e apre il profilo Instagram, dove posta gli allenamenti con le “sue” Pink e condivide la raccolta fondi a sostegno della ricerca scientifica contro i tumori femminili attraverso Rete del dono con il motto “Aiutiamo ad aiutare”. Nel feed, tante foto di donne con la maglia rosa, insieme, che corrono e sorridono.

Barbara Rachetti, giornalista di Donna Moderna e Disability Manager