in collaborazione con

Insieme si può

Insieme per correre, insieme per donare, insieme per curare: un mese di run, raccolta fondi e divulgazione in partnership con Donna Moderna.

#laricercaècura

Mariarosaria Amendola: «Il tumore non è un nemico e la nostra non è una battaglia. È un imprevisto di vita, che va gestito».

Mariarosaria (Saia) ha subito due interventi e la morte del marito, a soli 43 anni. Ma il suo spirito, capace di trovare il sole dappertutto, l’ha spinta a cambiare vita e città. Ora corre con le Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi per restituire alle altre donne la speranza e sostenere la ricerca scientifica

I suoi figli sono diventati più grandi di lei. Gianluca ha 16 anni e Diego 14, scalpitano per crescere ma sono già un po’ uomini. Lo sono diventati prima del tempo, con tutto quello che è successo alla mamma, a loro, al loro mondo di bambini. Mariarosaria a 40 anni nel giro di sei mesi si è ritrovata con due tumori, prima al seno e poi all’utero. Nonostante la prevenzione, nonostante le visite ginecologiche annuali, cinque anni fa la sua vita ha preso una svolta inaspettata e una sera sotto la doccia ha deciso di andare per conto suo, sbeffeggiando Saia (soprannome che ha voluto così, piccino come lei, alta un metro e 57) e noi donne che vogliamo programmare tutto, decidere tutto, incasellare appuntamenti, fatti, decisioni.

E dopo l’intervento in urgenza di quadrantectomia, le terapie e la radio, e poi l’intervento all’utero sei mesi dopo, un altro macigno rotola nella sua vita: viene a mancare all’improvviso il marito, un ragazzone di 43 anni alto un metro e 90, un giocatore di basket, sano e vitale come il loro amore nato tanti anni prima, quando lei aveva lasciato la sua Napoli per raggiungerlo a Lucca. A Lucca avevano costruito il loro mondo, tra il lavoro, i figli, le gare sportive, la vita di genitori giovani e pieni di progetti. Ma una sera tra le tante, l’aorta di Simone decide che non vuole lavorare più e lo lascia disteso nel letto. Lei non c’è, lo trovano i bambini. La chiamano al telefono. Impossibile immaginare il resto, quello che è successo dopo, tra porte spalancate, via vai, domande senza risposta. «Però - dice Mariarosaria, con quello spirito napoletano di cercare e trovare sempre il sole dappertutto - anche al funerale ho spinto i bambini a cercare di vedere tutto l’amore che avevamo intorno, le tante persone che erano venute a salutare il loro papà e a dimostrare a noi che c’erano, che volevano aiutarci».

L’aiuto vero però a Saia viene dai suoi figli. «I miei maschi di casa, più pratici e meno cervellotici di quanto non siano le femmine, mi hanno riportata ogni giorno coi piedi per terra. Mi hanno ancorato al presente e al futuro. Non mi hanno permesso di scivolare all’ingiù. Il più piccolo, Diego, quando aveva 10 anni, pochi giorni dopo la morte del papà mi disse: “Mamma, te lo ricordi che buono il tiramisu del papà?” Io cominciai ad annaspare tra il groppo in gola della nostalgia e il fantasma del suo trauma, ma lui mi mise all’angolo: “E tu, quando impari a farlo così?». Nel frattempo Mariarosaria decide di trasferirsi a Napoli dove vivono i genitori, dove «Tutti ti stanno vicino come al nord ma a differenza di Lucca, dove la malattia con sommo rispetto resta tua, qui tutti ne parlano al plurale, come per prendersene un pezzo: “Saia, quando ci operiamo? Saia, quando facciamo i controlli?”. Anche per questo sono tornata nella mia città. E ho scelto di curarmi all’ospedale Cardarelli, dove si sono scompaginate tutte quelle che finora erano state le mie certezze perché ho trovato una breast unit straordinaria: medici e infermieri competenti, umani, chiari». Perché la chiarezza è una parte importante dei vari modi in cui si può affrontare la malattia. Che sono soggettivi, intimi: ognuno trova il suo. «Appena diagnosticato il primo tumore chiesi come si chiamava, volevo sapere il nome esatto per pronunciarlo, immaginarmelo, guardarlo in faccia. Già che avevo questo ospite indesiderato, almeno poterlo nominare mi avrebbe dato qualche vantaggio. Visto che si prendeva pezzi di me, io volevo prendergli almeno l’identità. Insomma, dal momento in cui avessi saputo cosa avevo davanti, pensavo che avrei conosciuto meglio la strada da percorrere. Ma non sapevo niente. Non puoi sapere niente quando inizi il percorso di cure. È per questo che è giusto lasciarsi andare, affidarsi alle mani dei medici, ascoltare senza la presunzione di capire o sapere. Non capisci e non sai perché hai solo paura, una paura terribile. E in quei momenti immagini di non avere futuro, di non poter più essere una donna, di non poter dare più affetto, presenza, amicizia. Ma ti sbagli».

È nel momento in cui la prima operazione viene superata e iniziano le cure, che tutto si ricompone. Quei piccoli passi fatti di medicine con i loro orari, le dosi, i controlli e le visite, prendono forma di un cammino, un sentiero nuovo, una strada davanti da iniziare da zero. «Il tumore non è un nemico e la nostra non è una battaglia. Ho capito che le donne come noi non sono guerriere e non ci sono battaglie da vincere perché oggi il cancro è un imprevisto di vita, e come tale si gestisce. Ma prima ci si occupa di noi stesse, facendo controlli regolari e imparando a conoscere ed esplorare il nostro corpo, più possibilità si hanno. E quel calcolo delle probabilità a cui siamo tutti appesi si abbassa. Certo nel mio caso ha giocato la sorte. Io ho sempre fatto la visita ginecologica annuale, eppure quell’anno fatidico il nocciolino al seno si è presentato quattro mesi dopo i miei controlli. Ma è proprio per questo, pensando cioè anche all’imponderabile, che i controlli vanno fatti e la prevenzione messa nelle nostre agende zeppe di appuntamenti e cose da fare».

E così il primo appuntamento, passati gli anni delle cure più serrate, Saia lo prende con se stessa e decide di diventare Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi: «Ho pensato che, dopo essere stata il baricentro dei miei figli, dopo averli aiutati a trovare il loro nuovo equilibrio e a radicarsi in una vita e una città diversa, fosse giunto il momento di occuparmi di me. Di essere anche egoista, protagonista di uno spettacolo a cui loro per una volta avrebbero assistito: la mia gara di corsa. Ho deciso che volevo uno spazio tutto mio e che loro sarebbero stati in tribuna a fare il tifo per me e per tutte le donne come me».

Con i muscoli che bruciano, le ossa che urlano e i tanti problemi di un fisico messo alla prova da interventi, radio e terapia ormonale, Saia a 46 anni inizia ad allenarsi nella meravigliosa cornice dello stadio di Napoli con il suo piccolo gruppo e a confrontarsi con storie e vissuti anche più pesanti dei suoi. E scopre che la corsa, gli allenamenti insieme, la chat con il coach, possono tirare fuori l’amore per se stesse e quello sguardo sul futuro che in certi momenti rischia di abbassarsi. È per quello sguardo che vale la pena vivere.

Barbara Rachetti, giornalista di Donna Moderna e Disability Manager