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Sara Panzetta: «Dopo un tumore si può guardare oltre, come noi Pink Ambassador guardiamo al traguardo della gara»

La diagnosi di carcinoma mammario a 35 anni alza un muro tra Sara e i suoi sogni. Cambia vita, lascia il lavoro, pensa di più a sé. E incontra le Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi, “donne sorelle”, unite dalla voglia di vivere e dalla fiducia nella scienza

Il tumore femminile segna un doloroso spartiacque tra le donne: da una parte chi ha già figli, dall’altra chi stava pensando, sognando, programmando la maternità e ora deve metterla in stand by. Congelarla, proprio come i nostri ovuli che oggi si possono crioconservare, tenere per anni in un serbatoio di azoto liquido finché le cure non siano terminate. Una grande opportunità che la scienza ci offre per diventare mamme e che i medici propongono sempre alle giovani donne colpite da un tumore. Ma il fatto è che con gli ovuli, si congelano anche le speranze di una vita normale. Tutto si sgretola di fronte a una diagnosi così terribile: carcinoma mammario.

Sara era andata da sola in motorino a ritirare il suo referto all’ospedale di Bologna, ma quel giorno tutto si annebbiò e si fece venire a prendere. Lo scooter rimase lì, lei andò a casa con il suo compagno, con cui divideva sogni e vita. La vita di una coppia di 35enni come tante: lavoro, aperitivi, amici, vacanze. Il pensiero di una famiglia, certo, in trasparenza, sottotraccia, tanto si crede che basti pigiare un interruttore e tutto possa accadere. Invece quel giorno di settembre del 2014 arrivò un treno in corsa e li travolse. Da quella mattina al ritorno dalle vacanze in cui un po’ di sangue uscì da un seno di Sara, tutto cambiò. «Sono arrivate le operazioni, tanti cicli di chemio e radio - pesanti e dolorosi, quelli sì - e poi la terapia ormonale. Sono andata in menopausa forzata a 36 anni: vuol dire che all’improvviso entri in una senilità non prevista. Una specie di viaggio nel tempo, un doppio assalto alla tua femminilità: da una parte le cure che minano la tua immagine, quella che vedi allo specchio e che vedono anche gli altri. Dall’altra ciò che sai soltanto tu, quel cappio che ti senti stringere e non sai se un giorno mai si allenterà».

Prima delle cure, però, Sara accetta di sottoporsi alla crioconservazione. «Non sapevo neanche cosa fosse e all’improvviso mi ritrovai a decidere di mettere i miei ovuli da parte, per ritrovarli pronti per un’eventuale gravidanza al momento giusto. Al momento in cui il mio corpo avesse smaltito tutti i farmaci e avesse ripreso a ovulare. Già, io che lavoravo in un nido e vivevo immersa nel mondo pastello dei bambini e delle mamme, nelle dinamiche di pappe, nanne, giochi, dolcezze e capricci, avrei forse dovuto rinunciare al mio, di bambino? Se prima non ci avevo mai pensato così intensamente, ora il fatto di rischiare di doverlo accantonare mi costringeva a convogliare lì le mie energie».

Anche perché nel frattempo Sara deve rinunciare al lavoro che invece spesso, durante la malattia, è un’àncora di normalità. Le cure, con gli andirivieni all’ospedale, sono troppo dure da sostenere per i “suoi bambini” del nido che, così piccoli, devono poter essere rassicurati da una presenza costante. Resta così a casa in malattia per un anno, poi rientra ma i ritmi sono troppo intensi per lei. E così lascia il lavoro. «Capii che la malattia mi stava facendo vedere una via di fuga dalla mia routine. Mi stava presentando un’altra me stessa, che intravedevo appena ma mi piaceva. Insomma stavo realizzando che non ero ingabbiata in una vita che non mi apparteneva più, ma potevo cambiarla. Compresi così che avevo bisogno di tempo per me, di camminare al mattino, di cucinare in modo più sano, di non essere stritolata dalla routine lavoro-casa. A volte siamo noi che ci precludiamo la possibilità di essere diversi, di scommettere su di noi. Certo il tumore è un tale scossone, un tale shock che non si può banalizzare a un’occasione di cambiamento, ma può diventare anche questo».

Così Sara inizia a lavorare al pomeriggio come baby sitter e tiene la mattina per sé: scopre la dolcezza dello yoga, con le sue pratiche di meditazione e raccoglimento, il piacere di uno stile di vita più armonioso e una cucina diversa, più semplice e curata. E poi arriva la forza dirompente della corsa, quel piacere di sentire il proprio corpo che risponde, dopo tante cure e farmaci; che si muove in modo ciclico, quasi come una danza; che torna ad appartenerle. Si candida come Pink Ambassador di Fondazione Umberto Veronesi a Bologna, la sua città e inizia gli allenamenti col suo gruppo. Un team di donne fino a quel momento sconosciute, e che invece dopo poco si sentono già sorelle: insieme non tanto nell’inciampo di vita che hanno attraversato, ognuna in un modo tutto suo, quanto nella voglia di rinascere, di riscoprirsi, di stare insieme e darsi coraggio. Gli allenamenti diventano un progetto importante in cui scommettere ancora. «Ritrovarsi quelle due volte alla settimana e poi sentirsi regolarmente nella nostra chat è diventato un momento di gioia, come tornare in una famiglia che ti accoglie sempre e comunque, che ti capisce nel profondo. E in quei momenti però noi non parliamo della malattia: non c’è bisogno neanche di dirselo, lo sappiamo che è meglio non parlarne perché l’abbiamo superata grazie ai medici, alle cure, alla determinazione. Ed è questo che vogliamo trasmettere alle altre donne: si può svoltare, si può guardare oltre dopo un tumore, proprio come noi guardiamo al traguardo della gara che ci aspetta».

I cinque anni-finestra intanto sono passati e lei aspetta che la sua femminilità inizi a risvegliarsi per poi poter pensare a una gravidanza. «I medici sono positivi e ottimisti, addirittura ipotizzano una via naturale, senza PMA. Io posso solo dire che sono già felice di essere viva, di poter raccontare che il tumore è un incidente superabile, di poter dire alle donne di monitorarsi, di tenersi sempre sotto controllo. Io facevo un check-up generale una volta all’anno e nonostante questo, il mio tumore è comparso all’improvviso, aggressivo e prepotente. Vuol dire che non vale la pena fare prevenzione? Tutt’altro. Proprio perché le probabilità di incontrarlo sono molto alte - per tutte noi - i controlli, uno stile di vita sano e la fiducia nella ricerca possono ridurre questa incidenza e fare davvero la differenza tra chi oggi può raccontarsi e chi invece ha chiuso la sua partita con la vita».

Barbara Rachetti, giornalista di Donna Moderna e Disability Manager